Un altro complotto?

Roberto Beccantini9 novembre 2011

Fino alle otto di sera di martedì 8 novembre 2011, il giudice Teresa Casoria rappresentava – per il popolo juventino e, dunque, per mezza Italia – il simbolo della giustizia vera, l’icona delle sanzioni ponderate, l’incarnazione del processo corretto. Dopo la lettura del verdetto, per quello stesso popolo e per quella stessa metà, è diventata una Palazzi con i tacchi a spillo, una toga scandalosa, la capessa di due picciotte con le lupare puntate alla schiena di Luciano Moggi. Aspettare le motivazioni, no?

Avevo pronosticato la frode sportiva ma non l’associazione a delinquere: la stangata conferma il rito abbreviato di Antonio Giraudo che, a sua volta, confermava il castello della giustizia sportiva. Conservo dubbi sulla distanza criminale fra la «Biade» e il resto d’Italia, ma non si può non prendere atto di questo tsunami, e credo che non sia giusto – quand’anche venisse ridimensionato in secondo grado – attribuirne la violenza dell’impatto soltanto all’ennesimo complotto. Siamo già a tre indizi: non si chiede di applaudire la tesi vincente; semplicemente, di non sputarle addosso.

Non ho capito lo smarcamento della Juventus. O meglio, lo giustifico sul piano economico, visto che la sentenza la tiene lontana da eventuali risarcimenti, ma la giustizia ordinaria non contempla la responsabilità oggettiva, quella sportiva sì. Giraudo era l’amministratore delegato, Moggi il direttore generale. La società non poteva non sapere, tanto che ha fatto piazza pulita del vecchio management. Strano come «Tuttosport» abbia subito scaricato Moggi, considerato un martire fino al giorno prima, e sposato la linea del club. Aspettando l’appello e/o la Cassazione, tra farmaci prescritti e telefoni caldi ballano dodici anni di storia juventina (1994-2006). In attesa dell’ultima parola, una sola preghiera: finiamola di parlare di Farsopoli.

Aspettando la sentenza

Roberto Beccantini8 novembre 2011

E’ soltanto la sentenza di primo grado, ma ricordarlo non è fine, e allora, apriti cielo. In base alle deposizioni dei testi e alle intercettazioni prodotte dalla difesa di Luciano Moggi, la Calciopoli penale ha piegato la Calciopoli sportiva a una nuova lettura: non fu associazione a delinquere, ma guerra per bande. E se Moggi era il più influente del bordello, gli altri proprio carmelitani scalzi non erano, da Diego Della Valle a Leonardo Meani. Rimane, a mio avviso, la frode sportiva: non nel senso classico delle partite truccate, alla Enrico Preziosi, ma come ascendente sui designatori (e non solo). A proposito: Paolo Bergamo ne esce a pezzi, letteralmente. Per allontanare l’infamia dell’associazione, ha confessato che la dava a tutti: la griglia.

Vero, la giustizia ordinaria è una cosa e la giustizia sportiva, un’altra. A patto che la prima non ribalti la seconda. Il verdetto di Napoli farà da bussola a Figc e Coni, non proprio due leoni, per arrivare al traguardo delle radiazioni (Giraudo, Mazzini, Moggi) e dello scudetto a tavolino. Restano, poi, fior di misteri: il protezionismo esercitato a favore di Franco Carraro, escluso scandalosamente dalla kermesse napoletana; la celeberrima uscita del pm Narducci sulle telefonate di Massimo Moratti e Giacinto Facchetti («piaccia o non piaccia, non ce ne sono»); le bobine e i baffi trascurati o scartati dal tenente colonnello Auricchio; lo spionaggio illegale di Telecom; l’atto d’accusa (postumo) del superprocuratore Stefano Palazzi contro l’Inter, il cui percorso netto a livello disciplinare descrive e prescrive qualche dubbio.

In estrema sintesi. Così facevan tutti è sbagliato: così facevan molti. Inoltre, non può non esistere un podio delle responsabilità fra i molti che telefonavano. Ciò premesso, i mille chilometri che separano Moggi dal resto d’Italia, tracciati in sede sportiva, mi sembrano, oggi, un po’ meno.

Caso Napoli, nessuno è prefetto

Roberto Beccantini7 novembre 2011

Che Paese, ragazzi. A Genova, dopo i sei morti, la classe politica è sotto accusa per carenza di prevenzione. A Napoli, dopo la morte di Napoli-Juventus, la classe politica è sotto accusa per eccesso di prevenzione. Non credo che il prefetto Andrea De Martino sia un mascalzone – al massimo, un fifone – e allora accetto la sua scelta. All’estero, soprattutto in Inghilterra, più di una partita è stata ritardata o rinviata perché, attorno allo stadio «agibile», la neve o la pioggia avevano sabotato strade, ponti, cavalcavia, rendendo pericoloso il flusso dei tifosi. Ricapitolando: per una volta che, in Italia, la sicurezza dello spettatore «fisico», da stadio, viene preferita agli agi dello spettatore «virtuale», da salotto (quorum ego), non sarà certo il sottoscritto a gridare al complotto, all’inghippo, a un san Gennaro fazioso oltre ogni ragionevole ampolla. L’italiano, del resto, è campione del mondo nelle analisi post-ventive e ultimo, staccato, nelle diagnosi pre-ventive. Detto che il rinvio ha favorito più il Napoli che la Juve, le polemiche legate alla data del recupero appartengono agli istinti tribali del nostro mondo, istinti, che, al varo del calendario, Aurelio De Laurentiis sintetizzò con il suo memorabile «siete tutti delle m.».

Il lato buffo della vicenda è la delusione del presidente della Lega calcio, Maurizio Beretta, avvisato «solo» per telefono. Beretta è un presidente dimissionario in quota Unicredit (Roma): dimissionario anche dalle dimissioni che ha rassegnato e, dunque, sempre lì. Gli ricordo sommessamente che, nel gennaio 2010, non si disse «deluso» dall’invasione di Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan, che aggiustò il calendario aziendale per alleggerire l’approccio al derby. De Martino, cause di forza maggiore. Galliani, forze di causa maggiore. E Galliani non era nemmeno prefetto.